Mi sento di prendere una posizione netta, concedetemelo, così faccio anche una passeggiata sul viale dei ricordi, quando dicevo come la pensavo indipendentemente dalle conseguenze. Leggevo su Facebook un articolo molto interessante a proposito della Danimarca e degli aborti selettivi, sul paradosso della contrapposizione con la loro idea avanguardista di integrazione. Da premettere che non sono mai stata una “bacchettona”, e durante tutta la mia vita ho affrontato un duro percorso interiore, che dura tutt’oggi, per mettermi al riparo dall’abitudine di giudicare le scelte degli altri senza aver vissuto determinate situazioni. Ma di una cosa sono certa, nessun progresso in campo scientifico potrà mai essere in grado di rendere le persone capaci di giudicare al posto di un altro se una vita abbia valore, o valga la pena di essere vissuta, in qualsiasi condizione. Anche la compassione che proviamo vedendo una persona che soffre (e Dio benedica chi almeno la prova, si intende), deve lasciarci lo spazio per realizzare che chi è nella sua propria situazione sicuramente troverà lo stimolo per dare un senso alla sua vita. E allora, tutto quello che a noi sembra insopportabile è un peso con cui si convive, perché l’esistenza è un bene primario, è il bene primario, ed è più forte di qualsiasi cosa. Detto ciò, è chiaro quello che penso dell’aborto terapeutico. Fare un figlio è una scelta che comporta delle responsabilità dal momento stesso in cui si decide di concepire. I figli non si scelgono. La vita non è un gioco. È vita, in qualsiasi condizione. La scienza usa due pesi e due misure, ma non sempre tutto può essere relativo. Da un lato, si va contro la naturale evoluzione della specie, permettendo a chi naturalmente non è nato in grado di procreare di avere parti plurigemellari (non che abbia nulla in contrario), e dall’altro ci si arroga il diritto di selezionare gli esseri viventi, violandoli nel ventre materno. Da madre so perfettamente che tutti abbiamo il sacrosanto desiderio di un figlio sano, con tutte le possibilità di essere felice. Dalle motivazioni che ho sentito da chi è favorevole all’aborto terapeutico non riesco a capire il punto di vista, e sinceramente, a differenza di tutte le altre questioni, non ci voglio neanche provare. Provate a chiedere a una persona, per esempio, affetta da sindrome di Down. Provate a passarci un’ora, a guardare un suo sorriso. Non è vita quella? Sì lo è. E se è felice, o valga la pena di essere vissuta, dall’esterno non possiamo saperlo. Per tutti coloro che sono favorevoli all’aborto terapeutico, la risposta indurrebbe a troppe considerazioni. Io so una cosa, ma questa è solo la mia opinione, che dal momento in cui sono rimasta incinta, nessuno avrebbe potuto mai, con un ago, violare il primo posto sicuro di questa nuova vita. Che avrei amato mio figlio, e nulla sarebbe cambiato, in qualsiasi modo lui fosse stato. Che ho pregato fosse sano. Che se non lo fosse stato, avrei capito insieme a lui che enorme significato abbia una vita diversa da quella che ci si aspetta. E saremmo cresciuti insieme.
Mio figlio è sano. La sua esistenza vale tanto quanto quella di qualsiasi altro bambino. Quando sarà uomo non sarà perfetto, ma di sicuro sarà unico. E saprà che Dio non ci carica mai di un peso più grande di quello che possiamo sopportare.
Tutti veniamo concepiti con lo stesso diritto di esistere. Che ne valga la pena o no, come dice il caro Lucio, lo scopriremo solo vivendo.